Soliloquio del dolore – 18

Trascendenza del suicidio (o della morte sostanziale)

Ho già parlato della trascendenza del principe Homburg e di Mainländer, unico vero filosofo del suicidio nella storia del pensiero occidentale, secondo il quale l’autodistruzione è l’unica via verso la redenzione. Accanto a Mainländer, sul piano puramente letterario, si colloca Kirillov, immaginario filosofo del suicidio ideato da Dostoevskij.
Per Kirillov, sprofondato nella sua idea (come tutte le nature estreme, il giovane ingegnere dei Demòni non può pensare ad altro, non può distogliere lo sguardo dalla sua verità, che ha finito per compenetrarlo, divenendo lui stesso, il suo corpo, i suoi occhi, la sua voce), sono due le cause, o meglio, i «pregiudizi» che trattengono gli uomini dall’uccidersi: il dolore e l’aldilà. Secondo il personaggio di Dostoevskij, ci «sarà piena libertà quando sarà indifferente vivere o non vivere» [141]: è questo il vero fine, raggiunto il quale nessuno vorrà più vivere. Nelle attuali condizioni la vita non è che dolore e paura; il dolore e la paura sono il prezzo da pagare per vivere, in una realtà peraltro ingannevole, dominata dall’infelicità, in cui l’uomo non è il vero uomo: «Verrà l’uomo nuovo, felice e superbo. E colui al quale sarà indifferente vivere o non vivere, quello sarà l’uomo nuovo. Colui che vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. E non ci sarà più l’altro Dio» [142]. L’altro Dio «è il dolore della paura della morte» e chi vincerà il dolore e la paura diventerà Dio. Allora sorgerà una nuova vita, autentica, vera, un nuovo uomo, felice, coraggioso, un nuovo mondo, ospitale, e la storia si dividerà in due parti: «dal gorilla alla distruzione di Dio, e dalla distruzione di Dio […] alla trasformazione fisica della terra e dell’uomo» [143]. Chi ha il coraggio di suicidarsi dimostra di aver scoperto e smascherato l’inganno alla base di questa realtà inautentica e infelice: è questa la libertà fondamentale, il tutto al di là del quale non c’è nulla. «Chi ha il coraggio di uccidersi», ovvero chi si uccide per uccidere la paura, quello «è Dio».
Per Kirillov la vita esiste, mentre la morte non esiste. Il giovane ingegnere dei Demòni crede nella «vita eterna presente» e la sua massima aspirazione è giungere a quell’attimo miracoloso, legato all’esperienza dell’epilessia, di cui anch’egli è vittima, come il principe Myškin, in cui «il tempo improvvisamente si ferma per esistere eternamente» [144]. Tutto dipende dalla felicità, esclusivamente dalla felicità: quando l’uomo diverrà felice il tempo cesserà di esistere, perché il tempo è solamente un’idea e, come tale, si spegnerà nella mente. Secondo questo originalissimo pensatore, tutto è bello e l’uomo è infelice unicamente perché non sa di essere felice: colui che comprenderà ciò lo diverrà immediatamente. Tutto è bello e tutto è bene (la «formula della vittoria assurda» [145], come la definisce Camus): «Tutto è bene per colui che sa che tutto è bene. Se sapessero di star bene, starebbero bene, ma finché non sapranno di star bene, non staranno bene. Ecco tutta l’idea, tutta, non ce n’è nessun’altra!» [146]. Lo stesso principio vale per la bontà, ed evidentemente per tutti gli altri sentimenti positivi di cui è così complicato ritrovare tracce nella vita reale: l’uomo non è buono perché non sa di essere buono; quando gli uomini lo sapranno diventeranno buoni, tutti, dal primo all’ultimo, e colui «che insegnerà che tutti sono buoni, terminerà il mondo»: egli verrà e il suo nome è Uomo-Dio.
Dio è necessario, quindi deve esistere, ma Kirillov sa che non esiste, che non può esistere e questa consapevolezza lo schiaccia, impedendogli di continuare a vivere. Dio non esiste, dunque tutto accade per volontà dell’uomo e Kirillov, nella sua natura estrema, radicale, intollerante al compromesso, alla mera teoria, si sente costretto ad affermare il libero arbitrio nella sua suprema espressione, il suicidio: «Sono obbligato a spararmi, perché la massima manifestazione del mio libero arbitrio è uccidere me stesso» [147]. Per il giovane ingegnere non c’è idea più grande dell’inesistenza di Dio ed egli si ritiene il primo uomo nella storia del mondo, il cui senso ultimo consiste nell’invenzione di Dio come ragione per vivere senza uccidersi, a non aver inventato Dio.
Kirillov individua in Cristo il più grande uomo della storia, senza il quale la terra e tutto ciò che vi è sopra è «pura follia», ma se le feroci leggi di natura non hanno risparmiato neppure il loro miracolo, «ne deriva che tutto il pianeta è menzogna e si regge sulla menzogna, su una stupida presa in giro. Quindi anche le leggi del pianeta sono menzogna, sono un diabolico vaudeville. Perché allora vivere […]?» [148]. Nella sofferenza fisica e nella morte di Cristo, rappresentate con ineguagliabile efficacia da Hans Holbein il Giovane in quel Cristo morto che tanto colpì Dostoevskij, fino a sconvolgerlo, Kirillov vede una prova fondamentale a sostegno della propria filosofia del suicidio (come Ivan Karamazov nell’assurda sofferenza dei bambini individua la prova fondamentale del proprio rifiuto del mondo creato da Dio), che infine mette in pratica: «Io comincerò, io finirò, aprirò una porta. E salverò» [149].
Obbligato a credere di non credere, Kirillov è, di fatto, un condannato a morte. La sua natura estrema gli impedisce di fermarsi a una semplice professione di nichilismo, alla mera teoria ed egli è costretto a tradurre in pratica la sua idea, con la generosa convinzione di apportare un beneficio straordinario, senza eguali, all’umanità. Il suicidio del giovane ingegnere è l’ultimo atto di un sogno drammatico, frutto di un incolmabile vuoto d’amore, un sacrificio inutile che non cambia niente, e proprio per questo ancor più apprezzabile.

Trascendenza della tepidezza

Kirillov e la sua filosofia del suicidio nascono da una costola di Stavrogin, il protagonista e funesto demiurgo dei Demòni. Stavrogin, nel quale Nietzsche vede la massima e più autentica rappresentazione del nichilista, è la più grandiosa incarnazione letteraria del nulla: Stavrogin è il nulla. Morbo implacabile che contagia e uccide chiunque lo avvicini e subisca il suo involontario fascino malvagio, il protagonista dei Demòni sparge attorno a sé morte e distruzione, indipendentemente dalla sua volontà. A ben vedere, Stavrogin non ha volontà, perché non ha niente, e offende, profana, corrompe con divina indifferenza, sorta di rappresentazione del male nella sua forma primigenia, ancestrale.
Stavrogin è il personaggio più disumano mai creato da Dostoevskij; alla base della sua condotta scellerata, dei suoi crimini commessi senza slancio, senza entusiasmo, quasi per inerzia, non c’è un’idea, un pensiero o una bestiale fede nel vizio, come in Svidrigajlov, suo cupo, ma ben più umano predecessore: egli agisce nel male con totale gratuità e imperturbabile distacco, ed è questo che fa più spavento. Stavrogin non trova alcuna differenza tra un atto di animalesca lussuria e una grande, nobile impresa, in entrambi gli estremi vede una coincidenza di bellezza e un’identità di piacere, gettandosi a capofitto nel precipizio per il puro gusto di suscitare scandalo, di sfidare il ridicolo e per lui incomprensibile buonsenso.
Stavrogin provoca, dissacra, violenta, uccide eppure, al tempo stesso, è capace di concepire idee luminose, pietre miliari del pensiero dostoevskiano, come il cosiddetto messianismo russo e il credo incondizionato in Cristo. Questa paradossale e violenta mescolanza di bene e male è una vivida dimostrazione del naturale posizionamento di Stavrogin al di là del bene e del male, nella regione più profonda e oscura del sottosuolo.
La caratteristica principale del protagonista dei Demòni è la tepidezza ed egli è condannato, suo malgrado, a non credere: «Stavrogin se crede, non crede di credere. E se non crede, non crede di non credere» [150]. Stavrogin stesso, nella Confessione consegnata a Tichon, spiega come in ogni circostanza abbietta e infamante provi, «accanto a una sterminata rabbia, un incredibile godimento». La «straziante coscienza» della sua bassezza lo inebria e, faccia a faccia con l’avversario in un duello oppure dopo aver ricevuto uno schiaffo in pubblico, prova una voluttà che «supera ogni possibile immaginazione». Stavrogin non perde mai il dominio di se stesso, in nessuna situazione, anzi, tutto si fonda proprio sulla consapevolezza, la consapevolezza della propria natura tiepida, al di là del bene e del male, nulla: «non conosco e non sento il male e il bene, e non perché ne abbia perso la sensazione; il male e il bene non esistono […], sono solo pregiudizi» [151]. Stavrogin può desiderare di fare il bene e può ricavarne piacere, ma, al tempo stesso, desidera anche di fare il male e anche nel male prova piacere: «l’uno e l’altro sentimento […] sono sempre troppo meschini, e non sono mai molto forti. I miei desideri sono troppo deboli: non possono dominare. Si può guadare un fiume su una trave, non su una scheggia» [152]. Tiepido e nullo, Stavrogin non concepisce neppure una negazione: «Tutto è sempre stato meschino e appassito».
Stavrogin non conosce l’indignazione e la vergogna, dunque neanche la disperazione, è perfettamente vuoto, al di là del bene e del male, al di là della vita e della morte, in una dimensione sospesa che coincide col nulla, un nulla senza fondo né confini egli stesso. Il suo suicidio, che conclude e deve concludere I demòni (per Dostoevskij la distruzione sfocia necessariamente nell’autodistruzione – i porci che si gettano dalla rupe, nel passo evangelico che rappresenta la chiave di volta del romanzo – e ciò deve valere anche, e soprattutto, per il demiurgo degli ossessi), è completamente diverso da quello di Kirillov, basato sulla generosità, del tutto privo di slancio, di entusiasmo, di compiacimento. Stavrogin si uccide così come ha ucciso, muore così come è vissuto: indifferente e tiepido, sbadigliando.

Trascendenza del male

Dostoevskij ha rivoluzionato la storia della letteratura e del pensiero occidentali. Tra tutti i suoi personaggi, quello che meglio di ogni altro rappresenta e veicola il dostoevskiano rivolgimento è senza dubbio Ivan Karamazov, ultimo ed estremo vertice di quella linea della negazione tracciata dallo scrittore russo che, dall’uomo del sottosuolo, passa per Raskol’nikov, Svidrigajlov, Stavrogin, Pëtr Verchovenskij, Kirillov, Šigalëv e Kraft. Insieme all’io lirico dei Fiori del Male di Baudelaire, Ivan Karamazov incarna, come scrive Auerbach [153], quella crisi dell’individuo cartesiano che s’impone come il tema principale della grande letteratura europea tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo.
Per Ivan Karamazov «non c’è assolutamente nulla a questo mondo che obblighi gli uomini ad amare i propri simili», una «legge di natura per cui l’uomo debba amare l’umanità non esiste affatto», e se «finora sulla terra c’è e c’è stato l’amore, non è per una legge naturale, ma unicamente perché gli uomini hanno creduto alla propria immortalità» [154]. Ogni legge di natura si fonda su questo e la distruzione, nel genere umano, della fede nella propria immortalità, porta, di conseguenza, alla distruzione dell’amore e di «ogni energia vitale capace di perpetuare la vita nel mondo». Distrutta in questo modo la morale, tutto è lecito e per l’individuo privo della fede in Dio e nella propria immortalità, la legge naturale deve immediatamente convertirsi nell’estremo opposto rispetto a quanto sinora prescritto dall’antica legge religiosa: l’«egoismo spinto fino al delitto» e non solo permesso, ma «riconosciuto come la soluzione necessaria, la più ragionevole, e quasi la più nobile, nelle sue condizioni» [155]. È in questa fondamentale pagina dei Fratelli Karamazov che l’estremo pensiero nichilistico, egoistico, anarchico, distruttivo di Ivan, sintetizzabile nella celebre sentenza «tutto è permesso», erompe nell’opera e nella storia della letteratura, segnandola per sempre.
Come per Kirillov, anche per Ivan l’inesistenza di Dio e dell’immortalità è una verità acquisita e inconfutabile, dalla quale consegue l’idea distruttiva del «tutto è permesso». Inoltre, se la civiltà umana è indissolubilmente legata all’invenzione di Dio, sua conditio sine qua non, negare e distruggere Dio equivale a negare e distruggere l’intera civiltà: il singolo individuo non riconosce alcuna autorità all’infuori di se stesso e della propria volontà, del proprio desiderio, anche quando questo riguardi la morte di un altro uomo.
Tuttavia, come precisa lo stesso Ivan nel fondamentale colloquio con il fratello Aleksej, preludio della leggenda del Grande Inquisitore, egli non nega Dio, ma il senso del mondo creato da Dio ed è questo il punto centrale, il nodo sostanziale che permette a Ivan, secondo la cristiana prospettiva di Dostoevskij, di imporsi come il nichilista ultimo, definitivo, estremo. A sostegno del suo rifiuto, della sua rivolta contro Dio e il Suo mondo, Ivan si serve di un argomento che Dostoevskij stesso definisce «incontrovertibile», l’assurda sofferenza dei bambini, dalla quale deduce l’assurdità della realtà storica.
La trascendenza nel male di Ivan Karamazov rappresenta una rabbiosa degenerazione del suo grandioso e irrealizzabile sogno d’amore, di cui ho parlato in chiusura del precedente capitolo, e anche per questo motivo la confessione di Smerdjakov lo sconvolge a tal punto da condurlo alla pazzia. In Ivan non c’è quell’aderenza totale, letterale, fisica al proprio pensiero che troviamo in Kirillov, egli è molto più lacerato, diviso, scisso, moderno in questo senso, e, non appena la logica omicida del «tutto è permesso» si concretizza nell’assassinio del padre, da lui inconsapevolmente ispirato, Ivan sprofonda nella follia, incapace di sostenere il peso di una tale, malvagia responsabilità. La sua filosofia egoistica, distruttiva e il suo rifiuto del mondo di Dio appaiono reazioni rabbiose, vendicative alla sofferenza, al dissidio interiore, a uno sconfinato desiderio d’amore che non trova e non può trovare appagamento nella realtà, dunque contraddittorie e insostenibili. Ivan ha dentro di sé la confutazione del proprio pensiero, egli stesso, almeno in parte, è questa confutazione, come dimostra la conclusione del Grande Inquisitore, quel bacio di Cristo che, semplice e silenzioso, sgretola in un attimo il babelico edificio del male eretto dal vecchio cardinale. E questa spaccatura insanabile, questa profonda escissione tra bene e male, come annuncia Zosima in apertura del romanzo, non conoscerà mai una soluzione, conducendo inevitabilmente Ivan alla pazzia.

Trascendenza della pietà

La follia è il destino del più cupo personaggio di Dostoevskij, ma anche del più luminoso, e mi riferisco al principe Myškin, indimenticabile protagonista dell’Idiota. Ispirato a Cristo, Myškin è portatore di una parola nuova, rivoluzionaria che scuote dalle fondamenta l’intero sistema sociale, basata su una sola, semplicissima e disarmante legge, «l’unica vera legge dell’esistenza umana», la pietà, ovvero la capacità di farsi carico del dolore altrui, alleggerendo il peso e la sorte dei sofferenti.
Perfettamente consapevole dei limiti del linguaggio, acuiti dalla scarsissima, quasi nulla predisposizione all’ascolto dei vari personaggi dell’Idiota, Myškin non si limita a parlare, ma agisce e dà l’esempio: per pietà bacia Marie, giovane tisica sedotta, abbandonata, derisa e disprezzata dalla società benpensante, nell’episodio più rilevante del suo soggiorno svizzero; per pietà propone a Nastas’ja, figura struggente, splendida immagine del dolore, il matrimonio.
Myškin si colloca al di fuori della storia e del mito, la sua dimensione è quella dell’attimo, in particolar modo l’attimo che precede l’attacco epilettico e in cui la percezione della propria esistenza si moltiplica a dismisura. La mente e il cuore (nel protagonista dell’Idiota la mente è nel cuore) vengono inondati di luce e in questo istante meraviglioso, miracoloso, che passa con la velocità del lampo, tutte le angosce, i dubbi e le amarezze svaniscono, lasciando spazio a una «calma suprema, fatta di gioia, di speranza e di armonia». Che questa superiore condizione di consapevolezza sia legata alla malattia, a una tensione anormale e morbosa, non ha alcuna importanza, ragiona Myškin, «quando il risultato – e cioè quell’intensa sensazione lunga un solo secondo – una volta tornati alla normalità, viene riconosciuto come uno stato di armonia, di bellezza, di equilibrio, di pace, di un’estasi che si fonde con la più sublime sintesi della vita» [156]. Per questo attimo miracoloso e ineffabile, che da solo vale un’intera esistenza, si può dare la vita.
Analogo all’istante che precede l’attacco epilettico è l’istante che precede l’esecuzione della condanna a morte, in cui il condannato ha la piena consapevolezza del valore inestimabile della vita. Il condannato graziato promette a se stesso di non sprecare più un solo attimo di vita, di vivere ogni singolo minuto con l’intensità, la profondità di un’intera esistenza, accorgendosi però ben presto dell’impossibilità di questo ambizioso proposito, destinato a restare tale. Non per Myškin, che intende fare dell’istante, un fatto, reale e tangibile, al di là delle sue cause, una condizione permanente.
Con la sua pietà, con la sua nobile e fanciullesca semplicità, con la sua fiducia illimitata nel genere umano e nella bontà d’animo degli altri, con la sua fede sconfinata in Cristo, di cui è luminosa figura, Myškin non è meno sovversivo dei demòni. Egli è una sorta di rivoluzionario bianco, pacifico, cristiano nel senso più puro e autentico del termine, capace di mettere in crisi l’intero sistema sociale ricorrendo alle armi della compassione, dell’amore, della dolcezza, della sincerità. Ma l’idiota viene considerato e giudicato semplicemente un idiota, un decerebrato degno di scherno, il suo messaggio positivamente sovversivo si perde nel nulla e Myškin, dopo la morte di Nastas’ja, l’unica creatura umana capace di comprenderlo e amarlo, tanto da rinunciare a lui e condannarsi, precipita di nuovo nell’insensato abisso della malattia, per non uscirne più.

Trascendenza della morte formale

Tutti i protagonisti dei tre maggiori romanzi di Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Quaderni di Serafino Gubbio operatore e Uno, nessuno e centomila trascendono la condizione umana comunemente intesa.
Morto formalmente, Mattia Pascal vede il suo sogno di libertà sgretolarsi pezzo dopo pezzo, ritrovandosi infine in uno stato di esclusione dalla vita, senza una meta, senza uno scopo, «nel vuoto», condannato alla solitudine, alla diffidenza, all’ombrosità, a bramare senza la possibilità di appagare, come Tantalo: «Morto? Peggio che morto; me l’ha ricordato il signor Anselmo: i morti non debbono più morire, e io sì: io sono ancora vivo per la morte e morto per la vita. Che vita infatti può esser più la mia?» [157].
Durante il soggiorno romano, culminante nel suicidio di Adriano Meis, Mattia Pascal prende definitivamente coscienza di non essere mai stato libero, neppure da morto-vivo, e decide di tornare nel suo paese. A Miragno Pascal sente erompere dentro di sé una risata «omerica», distruttiva come una potente scossa di terremoto, che gli sconvolge le viscere e che, «se fosse scoppiata, avrebbe fatto balzar fuori, come denti, i selci della via, e vacillar le case» [158]. La morte formale, che offre la possibilità, dolorosa, certo, ma impareggiabile dal punto di vista conoscitivo, di considerare la vita da «spettatore estraneo», permette a Pascal di vedere finalmente l’autentica sostanza delle cose, e di riderne, approdando a quella cruda, spietata, nichilistica consapevolezza della miseria, della vanità e dell’insensatezza dell’esistenza umana che caratterizza la Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa e nel segno della quale, dunque, si apre il romanzo:

Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più caldo, ora un po’ più freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d’impazienza, e ha sbuffato un po’ di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono mai stati così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaia di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più? [159]

Trascendenza della reificazione

Mattia Pascal è uno zimbello del caso, Serafino Gubbio una vittima della macchina. La meccanizzazione della vita conduce necessariamente al «trionfo della stupidità»: è questo il grandioso risultato dell’impegno profuso dagli uomini «per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni» [160]. Con la sua inesorabile azione reificante, la macchina priva l’uomo della sua parte migliore, quell’«oltre» che ne rappresenta l’«intimo essere», mentre la società lo intrappola in schemi rigidi, insovvertibili: ogni possibilità di apertura, di abbandono verso l’altro, dunque di solidarietà, di fratellanza, è sbarrata per sempre e ogni individuo è condannato a restare solo in se stesso, vittima di quella «metafora» appiccicatagli addosso dalla società e che lo perseguiterà anche dopo la morte.
Distrutta in modo definitivo la possibilità di un ritorno a una condizione esistenziale originaria, autentica, essenziale, viva e umana, l’uomo è destinato a diventare una cosa tra le cose, ed è ciò che avviene a Serafino Gubbio in conclusione dei Quaderni. Ultimo componente della sua cinepresa, semplice «mano che gira una manovella», dopo aver ripreso, impassibile, il «fattaccio» che conclude il romanzo, il protagonista sprofonda nel silenzio, che gli si chiude del tutto intorno, divenendo così l’ideale servitore della macchina, come richiesto dal suo distopico tempo: «Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m’ha reso così – come il tempo vuole – perfetto» [161].

Trascendenza della follia

Dal punto di vista ontologico, la trascendenza pirandelliana più interessante è quella di Vitangelo Moscarda, estrema volontà di una libertà individuale finalmente ritrovata. L’improvvisa scoperta del difetto fisico (l’irregolarità del naso che pende verso destra) innesca una crisi che non investe e sconquassa solamente la dimensione individuale del protagonista (la dissociazione di Moscarda, la proliferazione da uno a centomila e insieme l’annullamento a nessuno), ma si riflette complessivamente sulla realtà, sulla società, persino sull’intera civiltà occidentale. Con l’illusione dell’unità individuale, del possesso della propria persona e della propria vita in Uno, nessuno e centomila crollano anche tutte le sovrastrutture filosofiche, ideologiche, sociali e civili erette dall’uomo nel corso dei secoli, nel tentativo di occultare la propria miseria. Il cielo di carta si strappa, per sempre, e Moscarda finalmente vede le cose per quelle che davvero sono: vanità, nient’altro che vanità.
La scoperta del difetto fisico, con il dramma dissociativo e il crollo dell’illusione, di ogni illusione sociale e filosofica, rende Moscarda, come Mattia Pascal e Serafino Gubbio, consapevole, consapevole della falsità, dell’illusorietà, della vanità di tutte quelle forme superflue che intrappolano l’essere. Ma la consapevolezza costringe all’esclusione, all’isolamento, complica maledettamente, fino a renderla talvolta impossibile, la capacità dell’individuo di adattarsi al mondo che, suo malgrado, gli è toccato in sorte, e infatti Moscarda inizia presto a vagheggiare la possibilità di un’uscita definitiva da se stesso, verso una completa, salutare incoscienza:

Ah, non aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta! Non ricordarsi più neanche del proprio nome! Sdrajati qua sull’erba, con le mani intrecciate alla nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti che veleggiano gonfie di sole: udire il vento che fa lassù, tra i castagni del bosco, come un fragor di mare.
Nuvole e vento.
Che avete detto? Ahimè, ahimè. Nuvole? Vento? E non vi sembra già tutto, avvertire e riconoscere che quelle che veleggiano luminose per la sterminata azzurra vacuità sono nuvole? Sa forse d’essere la nuvola? Né sanno di lei l’albero e la pietra, che ignorano anche se stessi; e sono soli [162].

Il vuoto di senso che improvvisamente si spalanca nella persona e nella vita di Moscarda, inghiotte anche il mito della modernità, di cui la città è l’emblema per eccellenza, mondo artificiale e falso, e l’intera civiltà occidentale, che conduce a una dimensione esistenziale completamente inautentica. Nella critica di Moscarda «costruzione» è un termine chiave, legato non solo alla sfera architettonica cittadina, ma anche a quella ontologica, con l’uomo impegnato in un quotidiano processo di costruzione di se stesso e degli altri, secondo un’insensata opera di sovrastrutturale edificazione dell’essere che rivela tutta la sua assurdità e illusorietà non appena venga a mancare uno dei due requisiti necessari, «fermezza della volontà» e «costanza dei sentimenti».
La crisi dissociativa conduce Moscarda sulla «strada maestra della pazzia», con il protagonista che fa della distruzione dei centomila Moscarda il suo nuovo, folle obiettivo. Moscarda distrugge le due principali istituzioni sociali, le due principali trappole dell’individuo, il lavoro e la famiglia, auto-escludendosi definitivamente dall’umano consorzio e giungendo al punto in cui «essere per sé qualche cosa» non vale «più nulla». Un esito nichilistico, disperato e disperante, come gli esiti cui giungono Mattia Pascal e Serafino Gubbio, ma smorzato, se non del tutto cancellato, dalla conclusiva dissoluzione nella pazzia del protagonista, che, senza più nome – nessuno finalmente – nasce e muore ogni attimo:

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
[…] La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridio delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori [163].

Senza più un’identità, Moscarda si abbandona all’inconcludenza della vita, al suo perpetuo divenire, compenetrandosi in tutto ciò che lo circonda, vagabondo della forma (albero, nuvola, vento, libro), lo sguardo errante per non cedere alle apparenze e morire, la riflessione abolita per impedire l’edificazione di nuove costruzioni – sovrastrutture. Il fu Vitangelo Moscarda muore ogni attimo e ogni attimo rinasce, senza una storia alle spalle, senza ricordi, in una dimensione atemporale, in un eterno presente, e non più in se stesso, «ma in ogni cosa fuori».

Trascendenza della possibilità

Ulrich, il matematico trentaduenne protagonista dell’Uomo senza qualità di Musil, si contraddistingue, tra le altre cose, per uno spiccato senso della possibilità, definibile come «la capacità di pensare a tutto ciò che potrebbe essere e di non considerare ciò che è più importante di ciò che non è» [164]. Un approccio fortemente alternativo, dalla profonda carica eversiva, in cui la trama si assottiglia, si fa caliginosa, dominata dall’immaginazione, dalla fantasticheria, dai congiuntivi. L’uomo della possibilità è attratto da ciò che non viene realizzato, e non solo in relazione al futuro, a ciò che sarà, ma anche, e forse soprattutto, in relazione al passato, a ciò che è stato: «Mi pare che la nostra storia sia sempre la stessa, ogni volta che di un’idea abbiamo realizzato una piccola parte, per la gioia che proviamo lasciamo incompiuto tutto il resto, che è molto più grande. In genere le imponenti istituzioni sono abbozzi di idee sciupate; come del resto anche certe importanti personalità» [165]. È proprio a partire dal senso della possibilità che Ulrich giunge a una nuova e originalissima definizione della morale, non più intesa come dominio e sapienza intellettuale, ma come «l’insieme infinito delle possibilità di vivere. […] La morale è fantasia» [166]. Ulrich è un uomo controcorrente, un autentico malpensante, intollerante al perbenismo ipocrita che domina la società kakanese d’inizio secolo, ma anche a tutte quelle correnti di pensiero pseudo-alternative che vi si oppongono: lo spiritualismo, il nietzschianesimo semplicistico, l’antisemitismo. A tutto ciò Ulrich si oppone ricorrendo all’arma dell’ironia, attraverso la quale smaschera i contraddittori paradossi di una società lacerata e caotica, alla vigilia del primo conflitto mondiale. Ulrich è un uomo troppo consapevole, troppo pratico per non rivolgere l’ironia anche contro se stesso e non sentire che dietro un tale atteggiamento ostinatamente critico e dissacratorio verso il proprio tempo, si cela un profondo dramma individuale: «La mia natura è simile a una macchina per svalutare continuamente la vita» [167], confessa a se stesso. Ulrich è incapace di legarsi a lungo a una stessa idea e anche per questo motivo ha disimparato a prendere sul serio la vita, molto più emozionante se letta in un romanzo, sostenuta da una concezione, che vissuta nella realtà, dove appare sempre così antiquata e prolissa, superata nel contenuto intellettuale.
Sprovvisto delle qualità richieste dal proprio tempo, meccanizzato, massificato, dozzinale, vuoto, Ulrich, indipendente dalle vecchie convenzioni sociali, dalle antiquate e polverose regole morali, «metafore ribollite, avvolte da un vapore insopportabilmente untuoso di sentimenti umanitari» [168], si tiene in disparte, osserva, svaluta e nella sua lucidissima e fredda, quasi mistica consapevolezza, predice la prima delle due guerre mondiali. Ma vedere oltre, con occhi nuovi, liberi dai pregiudizi e dai luoghi comuni, puri e spalancati, non è più considerata una qualità nel suo stupido mondo.

Trascendenza della memoria

Tra tutti i grandi romanzieri, Proust è quello che meglio di ogni altro incarna la figura dello scrittore-creatore. Chiuso nella sua stanza foderata di sughero, isolato dal mondo, rinserrato in se stesso, sordo alle vane e affascinanti sirene della mondanità, di cui in giovinezza è stato grande protagonista e cantore, incurante della tempesta bellica che sconvolge, sconquassa l’Europa, simile a quel folle sovrano, da lui rievocato, che gioca a carte mentre fuori divampa la guerra, Proust concentra tutte le proprie attenzioni e tutte le proprie energie notturne nella creazione di un altro mondo, vasto e ideale, popolato di innumerevoli personaggi, dotato di una propria geografia e attraversato da infinite impressioni minuziosamente analizzate. Nella Recherche, autentica opera-mondo, nulla è tralasciato. Attraverso la creazione letteraria, spinta fino alle sue estreme possibilità, Proust realizza ciò che umanamente risulta impossibile: avere il pieno possesso del proprio passato, tempo irreversibilmente perduto e che, come fa Proust, si può al massimo reinventare, ricreare.
Alla base del processo creativo di Proust si colloca l’esperienza della cosiddetta memoria involontaria, accostata da Benjamin al concetto di oblio. A questo fenomeno miracoloso, che in realtà altro non è che un meccanismo artificioso, un ordigno letterario, Proust dedica alcune delle pagine più celebri del primo volume della sua immensa, monumentale opera, Dalla parte di Swann, e dell’intera Recherche, in cui il Narratore, utopico uomo della memoria e del passato, dopo aver mangiato un pezzetto di madeleine imbevuto nel tè, torna ai giorni felici e spensierati e alle notti dolorose e tormentate di Combray. Questo l’effetto prodotto dal piccolo dolce: «Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. Di colpo, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la mia brevità, allo stesso modo in cui agisce l’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, questa essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale» [169].
Questo piacere dal valore inestimabile, che, come l’amore, rende di colpo la vita meno dolorosa e anestetizza la consapevolezza del Narratore della propria miseria, della propria nullità, è il primo miracoloso effetto della memoria involontaria, dell’oblio. Successivamente, dal pezzetto di madeleine imbevuto nel tè, il cui sapore è lo stesso di quello offerto, la domenica mattina, dalla zia Léonie al Narratore, emerge come per magia un intero mondo, il mondo di Combray. Il Narratore recupera così la piena consapevolezza – una vera e propria sapienza -, il pieno possesso del proprio passato, e ciò grazie ad un semplice sapore, perché «quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo» [170].
Proust non consacra quel che resta della propria vita al culto delle rovine che lo circondano, ma, ultimo reduce del proprio passato, le ricrea, pezzo per pezzo, pietra dopo pietra. Del resto, dalla morte della madre, avvenuta nel 1905, la creazione letteraria, fino a quel momento discontinua, dilettantistica e dispersa, rappresenta l’unica opportunità di sopravvivenza che gli resta. Proust la afferra e, esiliandosi nella sua stanza foderata di sughero, dove trascorre gli ultimi dodici anni della sua vita, dal 1910 al 1922, immerso nella solitudine, isolato da tutto e da tutti, monaco dell’arte, vi si dedica interamente, passando ogni notte tra le sue carte.

Trascendenza del nulla

Il nichilismo e il riso sono i due tratti caratteristici del Mefistofele di Goethe, che, bilanciandosi a vicenda, creano un equilibrio pressoché perfetto, ineguagliabile. È proprio nel segno dell’ironia che avviene la presentazione del demonio goethiano: «Sono una parte di quella forza che vuole sempre il Male ed opera sempre il Bene» [171]. la grandezza di Mefistofele, che, al contrario di Faust e di Werther, di cui rappresenta il definitivo superamento (Mefistofele sta a Goethe come Didimo Chierico, il fittizio traduttore del Sentimental Journey di Sterne, anch’egli ironico nichilista e, in quanto tale, superamento di Jacopo Ortis, sta a Foscolo), non si prende sul serio, puntando la corrosiva arma dell’ironia anche contro se stesso, per di più nel momento solenne dell’apparizione. Irriducibile ironista, Mefistofele fa del riso la sua cifra, ma, accanto all’irresistibile, irriverente e caustica propensione al comico, nel momento dell’apparizione il demonio goethiano manifesta anche l’altra sua componente principale, costitutiva, il nichilismo, rispondendo così alla richiesta di delucidazioni dell’insufficiente Faust: «Sono lo spirito che nega sempre. E con ragione: perché tutto quello che nasce è degno di finire in perdizione. E però meglio sarebbe che non nascesse nulla. Così è, che quanto voi chiamate peccato e distruzione e, in una sola parola, il male, è il mio proprio elemento» [172].
Thomas Mann definisce Mefistofele «nichilista cosmico», «la personificazione dell’odio per la luce e la vita, il figlio della notte primigenia e del caos, il messaggero del nulla» [173]. Nella sua immortalità, Mefistofele s’impone come l’incarnazione del nichilismo nella sua forma più estrema, disumana; egli è una sorta di ultra-nichilista condannato a distruggere l’altro, non potendo distruggere se stesso. Nella sua prospettiva senza tempo, «passato e puro nulla sono una cosa sola», e «l’eterno operare» non serve che a «portar via nel nulla quel che è stato operato». Travasare del nulla nel nulla: è questa per Mefistofele la vita, che pure «si muove in cerchio come se esistesse». Egli, per conto suo, preferirebbe il «vuoto eterno» [174], quel vuoto al quale anela con tutto se stesso, intimo e profondo desiderio destinato a restare tale. Per il «nichilista cosmico» l’immortalità è la peggiore delle condanne – non gli resta altro da fare che ridere, ridere di tutto, e anzitutto di se stesso.

Trascendenza dell’egoismo

Mefistofele è il più grande nichilista letterario; Max Stirner, probabilmente, il più grande nichilista filosofico, almeno per quanto riguarda il pensiero occidentale – non a caso «nulla» è la parola che apre e suggella L’unico e la sua proprietà. L’opera si apre all’insegna della rivolta: Stirner rifiuta di continuare a servire disinteressatamente Dio, l’umanità, gli uomini, i grandi egoisti che finora hanno dominato la storia, e inaugura l’egoistico dominio di se stesso. L’unico, l’egoista non conosce Dio, legge e morale, non abbraccia alcuna ideologia, è per definizione impolitico, non riconosce alcuna istituzione, alcuna autorità, soprattutto lo stato, «nuovo culto» tutto borghese. Per lui non esiste un «bene comune», ma solo il suo bene; si serve «di ogni cosa come mezzo il cui fine è egli stesso» [175] e nulla gli è sacro: «l’egoista compie spietatamente la – profanazione estrema» [176]. Stirner formula un nuovo diritto, il «diritto egoistico», fatto di una sola, semplice e scandalosa regola: «Io decido se io sono nel giusto; fuori di me non c’è alcun diritto o giustizia. Se qualcosa è la cosa giusta, la cosa che ci vuole per me, allora è giusta. È possibile che non per questo essa sia la cosa giusta per gli altri: questo è affar loro, non mio: si difendano, se vogliono!» [177]. È solo ed esclusivamente in termini di utilità, di utilizzabilità che l’egoista si rapporta al mondo e ai suoi simili: «Perché non dichiararlo in tutta la sua crudezza? Io utilizzo il mondo e gli uomini!» [178].
Stirner immagina un mondo libero, libero dalla schiavitù di Dio e della chiesa, della legge e dello stato, non per amore dell’umanità, ma per fare del mondo una sua proprietà (egli è sì un anarchico, ma un anarchico individualista, che fa umanità a sé): «Il mio egoismo ha interesse a liberare il mondo affinché esso diventi – mia proprietà» [179]. L’impegno dell’egoista non è frutto dell’amore per Dio, né dell’amore per l’uomo, ma unicamente dell’amore per se stesso. L’egoista non conosce verità, lui stesso è la verità, e nessun sentimento gli è sacro. Tutto è sottoposto al suo arbitrio, alla sua volontà, autentica volontà di potenza, alla sua utilità, alla sua soddisfazione, e così come crea può distruggere: egli è il primo e l’ultimo. L’egoista si pone al di sopra di tutto, proprietario del proprio potere, profanatore e smantellatore d’ogni superiore istanza, umana e divina, «mortale creatore di sé che se stesso consuma» e non è consumato, fiammifero e candela a un tempo, fondatore della propria causa su nulla.
Stirner è un ribelle, non un rivoluzionario, come lo intesero alcuni. Tra i due termini corre una differenza sostanziale, evidenziata dallo stesso autore: mentre il rivoluzionario intende demolire l’attuale sistema sociale e politico per fondarne uno nuovo, il ribelle eleva se stesso al di sopra dello stato presente, incurante di tutto il resto, anti-ideologico e anti-politico, se stesso e nient’altro. Cesare è un rivoluzionario, un rovesciatore di stati, Cristo un ribelle, che non conduce una battaglia politica contro l’autorità, ma, incurante dell’autorità, percorre semplicemente la propria strada.
Ribelle: è forse questo il termine che, meglio di ogni altro, compendia il senso dell’attività filosofica e dell’esperienza umana di Max Stirner. Ribelle interiore, come lo definisce Fritz Mauthner: «non era un diavolo e non era un pazzo, anzi era un uomo silenzioso, nobile, che nessun potere e nessuna parola sarebbero riusciti a corrompere, un uomo così unico che non trovava un posto nel mondo, e di conseguenza più o meno fece la fame; era soltanto un ribelle interiore, non era un capo politico, perché agli uomini non lo legava neppure una lingua comune» [180].
Max Stirner resta fedele a se stesso, sempre, nelle pagine dell’Unico come nella vita. È quanto scrive egli stesso in risposta a Kuno Fischer, uno dei suoi tanti detrattori, in quello che può essere considerato il suo testamento, il congedo del vagabondo dello spirito, di un ribelle ovunque fuori posto, come tutti quei lettori che nelle pagine meravigliosamente offensive, maleducate dell’Unico riconoscono se stessi, componenti di quella prima persona plurale, di quel «noi» cui Stirner ricorre spesso nella sua opera e che risuona quasi come il disperato tentativo di colmare un vuoto che egli stesso ha spietatamente generato:

Io voglio soltanto essere io; io disprezzo la natura, gli uomini e le loro leggi, la società umana e il suo amore, e recido ogni rapporto generale con essa, perfino quello del linguaggio. A tutte le pretese del vostro dovere, a tutte le designazioni del vostro giudizio categorico contrappongo l'”atarassia” del mio io; e già faccio una concessione, se mi servo del linguaggio, io sono l'”indicibile”, “io mi mostro soltanto”. E non ho forse, col terrorismo del mio io, che respinge tutto ciò che è umano, altrettanta ragione di voi col vostro terrorismo umanitario, che mi marchia subito quale “mostro inumano”, se commetto qualcosa contro il vostro catechismo, se non mi lascio disturbare nel mio godimento di me stesso? [181]

Signore e signori, Max Stirner, «grumo purissimo di nichilismo», come lo definisce Calasso, unico vero autore di quella «filosofia del martello che Nietzsche non sarebbe mai riuscito a praticare, perché troppo irrimediabilmente educato».

Trascendenza della creazione

Nietzsche impallidisce di fronte e Stirner, dal quale pure attinge a piene mani. In generale, qualunque pensiero critico e individualista rappresenta un passo indietro rispetto alla filosofia dell’egoismo di Stirner, oltre il quale è il genocidio. Zarathustra, a confronto con l’egoista stirneriano, appare un innocuo pacifista. È giunto il momento di riconoscere a Stirner il primato del distruttore: nessun filosofo, come lui, ha raso al suolo l’intero pensiero occidentale, da Socrate a Marx. Nessuna filosofia, nessuna civiltà resiste ai colpi poderosi del suo martello: tutto si sgretola, abbattuto da una forza distruttiva senza eguali.
Zarathustra, il creatore e profeta dell’oltreuomo, vive per tramontare. Spregia, non cerca «oltre le stelle una ragione per tramontare e sacrificarsi», ma si sacrifica «alla terra» perché un giorno divenga dell’oltreuomo. Vive per conoscere e vuole conoscere perché un giorno viva l’oltreuomo. Ama la propria virtù perché la virtù è la «volontà di tramontare e una freccia del desiderio». Vuole essere interamente lo spirito della propria virtù, di cui fa la sua «inclinazione» e il suo «destino». Dissipa la propria anima senza chiedere nulla in cambio per non limitare la propria libertà. Si vergogna di un colpo di fortuna favorevole perché la sua volontà è perire. Getta «parole d’oro» prima d’agire e mantiene più di quanto promesso, perché la sua volontà è perire. Giustifica i futuri e assolve i passati, perché vuole perire a causa dei presenti. Punisce il proprio dio per amore, perché vuole perire dell’ira del proprio dio. La sua anima è profonda anche nelle ferite ed egli può perire di una piccola esperienza. La sua anima è così traboccante da fargli dimenticare se stesso e tutte le cose che lo circondano. Il creatore ha spirito e cuore liberi, quel cuore di cui la mente rappresenta le viscere e che lo spinge al tramonto. È una goccia densa, pesante, che cade «dalla nube oscura sospesa sopra gli uomini», un annunciatore della folgore che perisce come tale [182].
Il creatore preserva il proprio caos originario, il proprio dionisiaco fuoco, perché «si deve avere ancora del caos dentro di sé per poter generare una stella che danza» [183]. Vuole la «propria volontà» e, perduto al mondo, «conquista il proprio mondo» [184]. Spirito leggero, aereo, danzante, ha nello «spirito di gravità», che tutto precipita, il suo diavolo e nemico. Uccide, ma con il riso, non con l’ira, e quanto più in alto e nella luce ascende, tanto più «le sue radici si spingono dentro la terra, verso il basso, nel buio, nel profondo, – nel male» [185]. Rifiuta lo stato, nuovo idolo dei troppi, dei superflui, dei borghesi ed è orgoglioso della propria povertà, perché «chi poco possiede, tanto meno è posseduto» [186]. Per i suoi vicini è la «cattiva coscienza», una stella «scagliata fuori nello spazio deserto e nel respiro di ghiaccio della sua solitudine» [187]. Il suo rinnovamento passa necessariamente dal fuoco: egli deve bruciarsi nella sua stessa fiamma fino a diventare cenere. Per il creatore morire è una festa, un «adempimento», una «spina e una promessa»: la sua morte è libera, viene a lui perché è lui a volerla. Egli esercita «la difficile arte di andarsene – al momento giusto» [188]. Nella sua morte brillano spirito e virtù, «come il crepuscolo che avvolge la terra».
Il creatore deve creare il suo mondo: la sua ragione, la sua immagine, la sua volontà, il suo amore devono diventare mondo. Creare «è la grande liberazione dal dolore e l’alleggerirsi della vita» [189], ma richiede dolore e continua trasformazione: «molto amaro morire» deve essere nella vita del creatore, chiamato a emanciparsi dalla vita comunemente intesa. Il suo amore supera il perdono e la compassione, ha radice nella cattiveria e la sua saggezza è «selvaggia». Egli immerge il coltello nella vita e nel tormento accresce il proprio sapere. Nelle lacrime e nel sacrificio il suo spirito affilato trova la felicità. Egli vive della sua propria luce, ringhiotte le fiamme che da lui stesso si sprigionano e non conosce la felicità di chi prende.
Il creatore è al tempo stesso distruttore, distruttore di quei valori tradizionali, pregiudiziali tramandati di generazione in generazione. L’avvenire è il suo obiettivo: «Con i miei figli voglio rimediare di essere il figlio dei miei padri: e con tutto il futuro rimediare questo presente!» [190]. L’innocenza è dove c’è volontà di generare e chi vuole creare al di sopra di se stesso ha la volontà più pura. La bellezza è dove si deve volere con tutta la volontà, dove si voglia amare e tramontare perché un’immagine non resti solo immagine. Amare e tramontare sono indissolubilmente legati: volontà d’amore è anche volontà di morte.
«Volere libera», ma anche la volontà deve fare i conti con l’impotenza, con l’impossibilità di agire sul passato, sul fu. La soluzione? «Ma così volevo». Così la volontà redime se stessa, si concilia col tempo e con cose più alte di ogni conciliazione, divenendo «volontà di potenza».
Il creatore insegna la leggerezza e chi vuole diventare leggero e sconfiggere lo spirito di gravità deve amare se stesso, di un amore sano e integro, tanto da riuscire a rimanere con se stesso e «non girovagare altrove» – poiché nella solitudine tutto è aperto e chiaro e le ore camminano su piedi più leggeri; poiché nella solitudine si dischiudono «le parole e gli scrigni di parole di tutto l’essere». Sin dalla nascita veniamo gravati di pesi superflui, sovrastrutturali, di parole e valori pesanti come bene e male. Già ai fanciulli si toglie l’amore verso se stessi. L’uomo porta sulle spalle troppe cose estranee, che rendono la vita un fardello. Scopre se stesso colui che dice: «questo è il mio bene e male». Solo il creatore, «che crea la meta dell’uomo e dà alla terra senso e futuro» [191], conosce il bene e il male.
Il creatore libera il cielo dalla menzogna della «volontà eterna», gli restituisce la sua purezza: «che non ci siano ragno né ragnatele della ragione eterna» [192], Il creatore tenta l’impossibile: dare senso alla vita senza guardare al cielo, facendo della terra un «luogo di guarigione».

Trascendenza della persuasione

Il creatore di Nietzsche si distende nel futuro, nell’eternità, mentre il persuaso di Michelstaedter, che detesta il filosofo tedesco e la sua «bestia fulva», come definisce Zarathustra, anche a causa della disastrosa mediazione dannunziana, si concentra tutto nel presente.
La persuasione «non vive in chi non vive solo di sé stesso», in chi è ridotto a una cosa tra le cose: «Persuaso è chi ha in sé la sua vita: l’anima ignuda nelle isole dei beati» [193]. Possedere la propria vita, averla in sé, vivendo solo ed esclusivamente di se stessi, significa fare i conti con il dolore, che segna ogni umana esistenza, indistintamente, rendendo la nascita una tragedia; significa guardarlo dritto in faccia e non distogliere mai lo sguardo, sostenerne coraggiosamente il peso.
Chi vuole, almeno per un momento, fare sua la propria vita, chi vuole, almeno per un momento, essere persuaso di ciò che pensa, dice e fa, «deve impossessarsi del presente; vedere ogni presente come l’ultimo, come se fosse certa dopo la morte: e nell’oscurità crearsi da sé la vita». L’uomo sulla via della persuasione è immune alla morte, se ne affranca, perché la morte toglie solo ciò che «ha già preso dal dì che uno è nato, che perché nato vive della paura della morte». L’uomo sulla via della persuasione è tutto in sé, nel suo presente, nella sua vita e non conosce necessità: «non c’è pane per lui, non c’è acqua, non c’è letto, non c’è famiglia, non c’è patria, non c’è dio – egli è solo nel deserto, e deve crear tutto da sé: dio e padre e famiglia e l’acqua e il pane» [194]. L’uomo sulla via della persuasione deve «permanere» e non inseguire i bisogni sempre sfuggenti e rinnovati, solo in apparenza appagati, deve «resister» alla corrente trascinante dell’illusione, perché, se cede, «nuovamente si dissolve la sua vita, ed ei vive la propria morte», perché sotto l’appagamento apparente del bisogno si cela «l’ombra del dolore cieco e muto, che amaro e vuoto gli rende quel piacere» [195]. Colui che vuole «fortemente» la propria vita, che la vuole davvero sua, non «s’accontenta», non teme di soffrire, ha il coraggio di strapparsi di dosso la «trama delle dolci e care cose», chiede il «possesso attuale», crea se stesso «per avere il valore individuale, che non si muove a differenza delle cose che vanno e vengono, ma è in sé persuaso» [196]. Tutti hanno ragione, uomini, sassi, formiche, zanzare, pulci, ma solo lui ha la ragione.
A togliere la violenza, a estirparla dalla radice deve tendere l’attività dell’uomo – «tutto dare e niente chiedere»: è questo il suo dovere, il suo imperativo morale. Come fare? Togliendo ai propri simili la paura della morte, dando loro la vita, la vita vera, autentica, non la vita illusoria: è questa l’attività che sola estirpa la violenza alla radice. È questo il «coraggio dell’impossibile», la «luce che rompe la nebbia, davanti a cui cadono i terrori della morte e il presente divien vita» [197]. Dare è fare l’impossibile, dare è, in realtà, «avere», e sull’impegnativa, ma luminosa via della persuasione non ci sono soste: «La vita è tutta una dura cosa» [198]. L’uomo sulla via della persuasione deve avere il coraggio di restare solo, di guardare dritto in faccia il dolore e sostenerne il peso. Da sé deve riempire il deserto, colmare il vuoto e illuminare l’oscurità. Deve arricchire la propria vita di negazioni e creare se stesso e il mondo, perché il mondo è il mio mondo e se lo possiedo possiedo me stesso.
In chi ha la capacità di farsene carico, di sostenerlo, di sopportarlo, come Sisifo il suo masso, il dolore, «muto e cieco» per chi lo fugge spaventato, diviene «parola eloquente» e «vista lontana». L’uomo sulla via della persuasione, che non s’accontenta di un piacere «grigio», che non ha paura della morte, non reprime il dolore, ma lo sente parlare e «parlando la voce del proprio dolore egli parlerà loro la voce ad essi lontana del loro stesso dolore» [199]. Il persuaso allora apparirà agli uomini insufficienti «come l’aurora d’un nuovo giorno» e rivoluzionerà le loro vite, rendendoli «partecipi d’una vita più vasta e più profonda», finalmente libera da tutto ciò che essi ritenevano indispensabile, dalle cure e dal calcolo di quelle piccole cose in cui ogni giorno si dissolve la vita vera, autentica, dalla «miseria della loro meschinità». Così gli insufficienti «assaporeranno nell’impossibile, nell’insopportabile la gioia d’un presente più pieno» [200]; vedranno che non c’è nulla da temere, da cercare, da fuggire.
Fattosi carico del dolore, vivendolo in ogni singolo punto, l’uomo sulla via della persuasione mantiene perennemente «l’equilibrio della sua persona». Dove per tutti gli altri è l’oscurità, per lui è la luce; consapevole della propria insufficienza dinanzi all’infinita potestas, «egli si fa sempre più sufficiente alle cose». Così nella sua presenza, nelle sue parole, nei suoi gesti si rivela, si fa vicina e concreta una «vita che trascende la miopia degli uomini». La sua parola «luminosa» «crea la presenza di ciò che è lontano» e muove il cuore d’ognuno. Solo nel deserto, il persuaso «vive una vertiginosa vastità e profondità di vita»; ogni suo singolo attimo è un «secolo della vita degli altri», asserviti al dio della philopsichia (amore alla vita, viltà) che accelera, dilata, disperde il tempo distruggendo il presente, «finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente. In questo egli sarà persuaso – ed avrà nella persuasione la pace» [201].

Trascendenza dell’assurdo

Infine l’uomo assurdo di Camus, che, a differenza degli esistenzialisti, non compie salti, accetta «il divorzio fra lo spirito che desidera e il mondo che delude», si fa carico della sua «nostalgia di unità», accoglie «l’universo disperso», non opera «negazioni redentrici» e alla menzogna, all’illusione preferisce, coraggiosamente, «senza tremare», la disperazione. Sotto le cose non c’è che un vuoto infinito, incolmabile, l’uomo assurdo lo sa e lo accetta, senza tentare di edulcorare questa condizione terribile, alla quale apparterrà fino alla fine dei suoi giorni: «Un uomo divenuto cosciente dell’assurdo, è legato a questo per sempre. Un uomo senza speranza, e cosciente di esserlo, non appartiene più all’avvenire» [202].
La morte sgretola tutte le menzogne e le illusioni sulle quali l’uomo fonda la propria esistenza, distrugge la morale che le regola e ne vanifica azioni e sforzi: l’individuo si ritrova solo e nudo in un deserto. Ma proprio nel momento traumatico della scoperta del destino mortale, vittima dello spaesamento e di una disperazione cupa, sorda, a un passo dal nulla che si staglia immenso oltre la morte, egli ha la grande opportunità di diventare un uomo assurdo, di comprendere e accogliere la sua nuova libertà, una libertà autentica, davvero illimitata, sfruttandola a proprio vantaggio. L’uomo assurdo non accetta Dio perché per lui non ha alcun significato ciò che viene collocato al di fuori della sua condizione mortale; egli comprende solamente in termini umani, razionali e il suo atteggiamento filosofico-spirituale è quello della rivolta: «una delle sole posizioni filosofiche coerenti è la rivolta, che è un perpetuo confronto dell’uomo e della sua oscurità; che è esigenza di una trasparenza impossibile, e che mette in dubbio il mondo a ogni istante. […] la rivolta metafisica estende la coscienza per tutto il campo dell’esperienza: essa è la costante presenza dell’uomo a se stesso. Tale rivolta non è aspirazione, poiché è senza speranza; è la certezza di un destino schiacciante, meno la rassegnazione che dovrebbe accompagnarla» [203].
Questo stato metafisico di rivolta permanente, di dubbio, di piena consapevolezza di se stessi, dei propri limiti, della propria condizione schiacciante, della propria finitudine e gratuità conferisce un nuovo, autentico valore alla vita, le restituisce la sua grandezza: «non vi è spettacolo più bello di quello dell’intelligenza alle prese con una realtà che la supera» [204]. Rivolta e coscienza, sono queste le due caratteristiche metafisico-spirituali precipue dell’uomo assurdo: «Si tratta di morire irreconciliati e non già di pieno accordo. […] L’uomo assurdo non può far altro che tutto esaurire ed esaurirsi. L’assurdo è la sua estrema tensione, quella che egli conserva costantemente con uno sforzo solitario, perché sa che in questa coscienza e in questa rivolta, giorno per giorno, egli attesta la sua sola verità, che è la sfida» [205].
La spietata, feroce consapevolezza che caratterizza l’uomo assurdo, quella consapevolezza che gli recide per sempre le palpebre e gli rivela la reale natura di Dio, dell’eternità, delle illusioni del quotidiano e dell’idea, schermi che celano l’assurdo, non è vissuta come una condanna, come una malattia mortale, quale la intende per esempio l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij [206], e quale l’ho sempre intesa, o piuttosto subita, io stesso, ma come un superiore stato di lucidità filosofica che conduce all’unica, vera libertà. La sua rivolta poi non ha niente di storico, niente di politico, è una condizione filosofica e spirituale (si ricordi la differenza tra ribelle e rivoluzionario di Stirner).
L’assurdo annienta ogni fantasiosa possibilità di libertà eterna, ma restituisce all’uomo la completa libertà d’azione. La mancanza di speranza e di avvenire legata all’assurdo, rappresenta così un «accrescimento nelle disponibilità dell’uomo». Distrutte le barriere entro le quali aveva rinchiuso la propria vita, ordinandola e dandole un senso fittizio e logicamente impossibile, l’assurdo rivela di colpo all’uomo che non esiste un domani, e proprio questa inesistenza futura rappresenta la «ragione» della sua «profonda libertà». Libero dalle regole comuni, convenzionali, l’uomo assurdo evade dal sonno quotidiano e torna alla coscienza: «L’uomo assurdo intravede così un universo ardente e gelato, trasparente e limitato, dove nulla è possibile, ma tutto è dato; e dopo il quale vi è lo sprofondamento e il nulla. Egli può allora decidere di accettare la vita in un tale universo e di trarne la propria forza, il rifiuto a sperare e la prova ostinata di una vita senza consolazione» [207].
Aspetti negativi come la mancanza di speranza, di consolazione, di avvenire, come l’insensatezza, l’inutilità, la gratuità, la finitudine, la sterilità assumono valore positivo alla luce rigenerante dell’assurdo, e in questo universo spoglio, ricondotto alla sua terribile essenzialità, alla sua gelida infecondità, per l’uomo che accetta la sfida e la lotta, traendone la propria forza, non conta più la qualità, concetto legato a un giudizio di valore fatto a pezzi dall’assurdo, ma la quantità: «ciò che importa non è vivere il meglio, ma il più possibile». Una conseguenza naturale per l’uomo assurdo, che sente «la propria vita, la propria rivolta e la propria libertà il più intensamente possibile», dunque vive «il più possibile» [208].
L’uomo assurdo non fa nulla per l’eterno, ha il «possesso presente della propria vita», citando Michelstaedter, non conosce morale, perché la morale è concetto inseparabile da Dio ed egli vive «fuori da questo Dio». Per l’uomo assurdo vale la formula di Ivan Karamazov «tutto è permesso», ma ciò non significa che «nulla sia proibito»: l’assurdo non raccomanda certo l’omicidio, «ma rende al rimorso la sua inutilità» [209]. L’unico vero limite alla libertà assurda è la morte.

La mia trascendenza

Questa notte mi sono svegliato di soprassalto, senza respiro, come se fossi improvvisamente riemerso dall’apnea. Non ricordo quale incubo terribile abbia turbato e interrotto il mio sonno, ma ho impiegato qualche minuto a regolarizzare il respiro. Ho temuto di soffocare. Superato il trauma dell’asfissiante risveglio, lo sguardo fisso nel buio, mi sono detto, ad alta voce, per dare consistenza, fisicità alle mie parole nel silenzio assoluto della notte, che l’unico modo che ho per resistere e non darla vinta alla vita è trascendere: se non trascenderò, mi ucciderò, non c’è alternativa. Non posso più andare avanti così. La mia capacità di sopportazione è giunta al limite estremo, alla fine del mondo, oltre il quale è la morte, mio malgrado.
Dopo un’ora, forse anche più, d’attesa, sono riuscito a riprendere sono e mi sono ritrovato nell’inferno dei suicidi loro malgrado, dei suicidi incoscienti (forse l’incubo precedente, che mi aveva tolto il respiro, riguardava proprio la mia morte volontaria), poveri disgraziati divorati dal rimorso, dovuto al fatto di essersi tolti la vita senza comprendere il senso autentico del suicidio. Vagavano nel nulla come anime in pena, senza meta, lo sguardo scaraventato in basso, in attesa. Attendevano l’ora impossibile del risveglio, del ritorno alla vita dopo il lungo e riposante oblio, nel cuore l’assurda e sciocca speranza della felicità.
Io stesso ero uno di quegli spettri del rimorso, di quei suicidi sbiaditi, sul collo il solco livido del nodo scorsoio, la sua fotografia in una mano: camminavo svagato, distratto, attendendo il suo ritorno e il mio risveglio, incapace di arrendermi all’evidenza della morte, di cui avevo smarrito quasi del tutto la cognizione. Solamente un vago sospetto della fine permanente, senza soluzione, mi pungeva di tanto in tanto nel profondo, come uno spillo, alimentando la speranza. Camminavo, senza rendermene conto, senza sapere dove andare, perdendomi nella sua immagine, ricordando le sue parole e attendendo come un pazzo il momento impossibile del ricongiungimento.
Tra i suicidi loro malgrado non ho trovato comunicazione né solidarietà. Ognuno di loro era una solitudine vasta, profondissima e insondabile, un’isola incapace di vedere al di fuori di se stessa e del proprio dramma. Concentrati nell’attesa e nella speranza, pungolati dal rimorso, i suicidi incoscienti apparivano silenziosi e solitari vagabondi del nulla (tra di loro ho visto Kleist e Pavese, Werther e Jacopo Ortis). Per nessuno di loro il suicidio è stato il frutto di una categorica volontà di autodistruzione, come avviene nel suicida filosofico, metafisico alla Mainländer, alla Kirillov, ma di un vile desiderio di riposo e oblio. Il loro suicidio non è stato ispirato dal pessimismo, dalla «conoscenza del non-valore» e dalla «conseguente indifferenza», ma dall’ottimismo, dalla «fede in un valore (la felicità nella morte) sconosciuto, per solo stimolo del suo bisogno presente» [210]. Il suicida suo malgrado ha paura della morte ed è dominato dalla «debolezza che chiede per pietà un velo a schermo del dolore, che chiede al pane, al vino, ai compagni, all’amore, all’arte, alla gloria, a Dio, una proroga della morte» [211]. Il suicida incosciente non aspira alla morte, alla fine, alla distruzione, ma al sonno e all’oblio, aspirazione abietta descritta così da un esausto Baudelaire:

Aspiro a un riposo assoluto e a una notte continua. Cantore di folli voluttà di vino e oppio, non ho sete che di un liquore sconosciuto sulla terra, e che neppure la farmaceutica celeste potrebbe offrirmi, – di un liquore che non conterrebbe né la vita/vitalità né la morte, né l’eccitazione, né il niente. Nulla sapere, nulla insegnare, nulla volere, nulla sentire, dormire e ancora dormire, tale è oggi il mio unico voto. Voto infame e disgustoso, ma sincero [212].

Ecco, se io mi uccidessi ora risponderei a questo stesso vile bisogno di sonno e oblio: morirei non per morire, per autodistruggermi, ma per dormire, consegnandomi alla vita. Io non voglio andarmene così, io voglio morire davvero, con distacco, senza entusiasmo, gelido, vuoto e per fare questo devo trascendere ed emanciparmi dalla vita. Nella mia trascendenza confluiranno tutte le trascendenze filosofico-letterarie descritte in questo capitolo, se non del tutto almeno in parte, perché in ognuna di loro c’è del buono. Forse non esiste una parola che possa racchiudere, sintetizzare, definire la mia trascendenza, di cui, per ora, non ho che una vaga idea. In essa si concentrerà, forse, tutto ciò che voi rifiutate e reprimete, ma questa sarà solo una parte dell’insieme. La mia trascendenza sarà la trascendenza dell’insensatezza, dell’inutilità, della gratuità, della sterilità, della miseria, della mortalità, della solitudine, della disperazione, della disillusione, del vuoto, dell’abisso, della consapevolezza, della realtà spietata, dell’indifferenza, dell’imperturbabilità, della rassegnazione, dell’atemporalità, della povertà…
Io trascenderò, io mi affrancherò dalla mia nemica, la vita, e mi ucciderò, secondo la mia categorica volontà di autodistruzione. Il suicidio è il mio epilogo, lo è sempre stato, ma c’è modo e modo di togliersi la vita. Io non voglio piangere esalando l’ultimo respiro, ma sorridere. Io non voglio distogliere lo sguardo, ma guardare dritto in faccia, con occhio gelido e indifferente, il nulla, sostenerne con distacco la vista terribile. Non sarà poi tanto diverso da quando mi guardo allo specchio.

NOTE

[141] Fëdor Dostoevskij, I demoni, cit., p. 161.

[142] Ivi, pp. 161-162.

[143] Ivi, p. 162.

[144] Ivi, p. 284.

[145] Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 120.

[146] Fëdor Dostoevskij, I demoni, cit., p. 285.

[147] Ivi, p. 672.

[148] Ivi, p. 674.

[149] Ibidem.

[150] Ivi, p. 671.

[151] Ivi, p. 762.

[152] Ivi, p. 732.

[153] Erich Auerbach, Da Montaigne a Proust. Ricerche sulla storia della cultura francese, Garzanti, Milano 1973.

[154] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 86.

[155] Ibidem.

[156] Fëdor Dostoevskij, L’idiota, cit., p. 730.

[157] Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, a cura di Sergio Campailla, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 168.

[158] Ivi, pp. 195-196.

[159] Ivi, p. 36.

[160] Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, cit., p. 6.

[161] Ivi, p. 175.

[162] Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Newton Compton editori, Roma 2013, p. 31.

[163] Ivi, pp. 125-126.

[164] Robert Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 42.

[165] Ivi, p. 318.

[166] Ivi, pp. 1116-1117.

[167] Ivi, p. 973.

[168] Ivi, p. 657.

[169] Marcel Proust, Dalla parte di Swann, traduzione di Paolo Pinto ed Eurialo De Michelis, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 37.

[170] Ivi, p. 39.

[171] Johann Wolfgang Goethe, Faust, cit., p. 99.

[172] Ibidem.

[173] Thomas Mann, Sul «Faust» di Goethe, in Johan Wolfgang Goethe, Faust, cit., XXXIX.

[174] Johann Wolfgang Goethe, Faust, cit., p. 813.

[175] Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, cit., p. 181.

[176] Ivi, p. 194.

[177] Ivi, p. 200.

[178] Ivi, p. 310.

[179] Ivi, p. 320.

[180] Citato in Roberto Calasso, Accompagnamento alla lettura di Stirner, in Id., L’unico e la sua proprietà, cit., pp. 426-427.

[181] Citato in Roberto Calasso, Accompagnamento alla lettura di Stirner, cit., pp. 404-405.

[182] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., pp. 234-235.

[183] Ivi, p. 235.

[184] Ivi, p. 242.

[185] Ivi, p. 250.

[186] Ivi, p. 255.

[187] Ivi, p. 262.

[188] Ivi, p. 268.

[189] Ivi, p. 274.

[190] Ivi, p. 295.

[191] Ivi, p. 337.

[192] Ivi, p. 319.

[193] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 42.

[194] Ivi, pp. 69-70.

[195] Ivi, p. 71.

[196] Ivi, p. 72.

[197] Ivi, p. 82.

[198] Ivi, p. 83.

[199] Ivi, p. 86.

[200] Ibidem.

[201] Ivi, pp. 88-89.

[202] Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 31.

[203] Ivi, pp. 50-51.

[204] Ivi, p. 51.

[205] Ivi, p. 52.

[206] «Vi giuro, signori, che l’esser troppo consapevoli è una malattia, un’autentica, assoluta malattia» (Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, cit., p. 10).

[207] Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 56.

[208] Ivi, p. 58.

[209] Ivi, p. 64.

[210] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute, cit., p. 78.

[211] Ivi, p. 79.

[212] Charles Baudelaire, Progetti di prefazioni e di epilogo, in Id., I Fiori del Male e tutte le poesie, traduzione di Claudio Rendina, Newton Compton editori, Roma 2014, p. 327.

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